Ho accolto con piacere l’invito delle colleghe Alma e Cristina ad esprimere alcune riflessioni riguardanti il nostro recente rapporto professionale, e perché no di gradita amicizia, più di quanto loro stesse possano immaginare, poiché nutrivo già di mio il desiderio di esternare la percezione di un’affinità che promuove pienamente il sodalizio con Krómata e ciò è per me motivo di enorme gratificazione soprattutto tenendo conto della distanza territoriale che ci separa e che alla luce di tali sensazioni si riduce incredibilmente al minimo.
Ciò che mi ha maggiormente colpito nel visionare i progetti di Krómata è sempre stata l'insistenza sulla parola “Pedagogia” che ritorna in modo regolare nei titoli dei programmi formativi accompagnandosi elegantemente a tutti quei contesti che alla pedagogia appartengono per natura e questo ha reso possibile che una prospettiva evidentemente comune evolvesse naturalmente nella condivisione di intenti fondati su quella dedizione verso ciò che per un vero pedagogista rimane la salvezza dell'uomo: l'educazione. Ringrazio quindi Alma e Cristina per questa preziosa esperienza di crescita che il nostro incontro mi ha riservato e dedico loro l’estratto di uno scritto di qualche tempo fa.
TRATTAZIONE DEL TEMA
Un titolo e un tema come questo lascia trasparire tutta la portata smisurata e complessa del panorama educativo odierno che svilisce spesso ogni buon intento anche di noi educatori e pedagogisti ‘sul campo’ che abbiamo scelto questa sfida per mestiere.
Quando si parla di educazione ci vengono in mente i bambini, gli adolescenti con i loro drammi, oggi forti quanto meno transitori di una volta, pensiamo al ruolo difficile di genitore attuale, e non sempre siamo indotti a cercare lo sfondo antropologico e culturale di cui si nutre la nostra società che non è più, malgrado si sforzi, a volte ridicolizzandosi in fiumane di gente dirette verso improbabili obiettivi, quella delle battaglie dei diritti negati e delle ingiustizie perpetrate ai danni di una minoranza, assumendo invece sempre di più le connotazioni di un’enorme Anima Mundi Globalizzata e forgiata dai ritmi inquieti di un demiurgo invisibile e figlio di un progresso dalle due inevitabili facce, come sempre accade, quella di un miraggio che ci rende la vita più lunga e più semplice e quella di un inganno che ci ruba proprio attraverso questo irrinunciabile adattamento, ciò che di più prezioso ci appartiene: la relazione, il dialogo, il tempo, il contatto con l’altro in tutte le sue forme e quella linea di confine che ci rende umani, antico oggetto d’invidia delle divinità olimpiche, che proprio in ragione della sua finitudine riesce a dare senso alle scelte che compie. Ma l’Anima del Mondo globalizzato si mostra ben diversa da quella di platonica memoria dalla quale si diramavano divinità preposte alla creazione di anime mortali che avrebbero avvolto corpi intenzionalmente creati dopo l’anima poiché “destinati ad obbedire ad essa”, corpi e anime mortali, anime singole coincidenti per il mondo antico con la stessa anima del mondo e a guardia delle quali le divinità platoniche avevano posto “il cuore, affinché quando ribollisse la forza della collera, annunciando la ragione l’arrivo di qualche azione dannosa per le membra proveniente dall’esterno o anche dai desideri interiori, avvertendo le ingiunzioni e le minacce, divenisse obbediente e seguisse in tutto la ragione e lasciasse così il predominio alla parte migliore in tutte loro” (Timeo - Platone). Difficile immaginare davanti all’attuale emergenza educativa dove sia finita la sentinella delle emozioni, dove sia finita quella parte migliore, che oggi chiameremmo coscienza, che non riesce a predominare svilendo spesso anche la più ovvia assunzione di responsabilità, difficile non chiedersi se le emozioni stesse siano autentiche e non il surrogato malriuscito di stati d’animo alimentati da ambiguità ambientali, da silenzi familiari e taciti accordi che nutrono l’insidia dell’indifferenza e del tirare avanti, della sordità emozionale e del “pericolo di non sentire niente”, per echeggiare una nota canzone, quando l’interezza di corpo e anima e la coscienza dei gesti e delle intenzioni, lascia il posto all’isolamento, all’individualismo esasperato e a un pensiero confuso, anestetizzato dalla fruizione virtuale. L’uomo da sempre si è lasciato affascinare e intimorire al tempo stesso, dal mistero dell’ignoto, dell’infinito e di ciò che non possiede confini. L’anima greca cresciuta tra i contorni ben definiti dell’Attica dove era sempre possibile scorgere una terra all’orizzonte si lasciava trasportare, malgrado il timore, dall’insaziabile curiosità che la contraddistingueva, verso sconfinate distese di mare quale fonte continua di stimolo alla contemplazione dell’immensità del paesaggio, risvegliando dentro di sé l’audace volontà di esplorarlo andando al di là di quel limite che non è “forma mentis” greca, ma solo il confine oltre il quale procedere.
Una volta fatto ritorno nella madrepatria nascevano storie, racconti, scambi di notizie, fra coloni, naviganti, mercanti che avrebbero poi fatto parte del patrimonio comune della coscienza collettiva. Sicché maturò spontaneamente quella ricerca di infinità che inibita dal difetto geografico era pienamente appagata dall’azione umana. Ai greci che non avevano speranze ultraterrene, il concetto di morte consegnava il senso del limite nella convinzione che se si è mortali non si può oltrepassare una certa soglia e bisogna mantenersi nella propria possibilità di senso e sviluppare la virtù che ci è propria attraverso la conoscenza di se stessi, una percezione sensata che andrebbe recuperata con urgenza in ogni società che proponendo un progresso infinito si comporta come lo psicotico che non accetta il confine perché nelle proprie scelte estreme non accetta più la finitudine corporea. Nell’Etica Nicomachea Aristotele sostiene che l’uomo è quella parte di anima costituita dalla ragione e dal pensiero e l’infinità è propria del pensiero poiché è ad esso che non vi è limite; ed è sicuramente da questa innata tendenza dell’uomo al superamento del limite che nasceranno le rivoluzioni scientifiche e culturali tese al miglioramento delle condizioni umane. Un confine però umanamente sempre temuto e ossessivamente raggiunto e sorpassato, ma anche sacro e rispettato quando non valicabile. In questo vuoto lasciato dal fantasma antico della misura c’è tutta la tragicità del nostro tempo che non “sente” e dunque non cresce, e tutto lo spaesamento degli educatori chiamati ad intervenire in questo panorama culturale, non solo in termini di progettualità e reazione, ma soprattutto di prevenzione e perché questo accada è necessario restituire all’individuo la presenza dei tre grandi assenti della nostra epoca: il tempo nella sua duplice natura quantitativa di Kronos e qualitativa di Kairos, il rispetto delle possibilità destinate a tutto ciò che in quanto vivente è destinato a finire e il contatto sano con l’Altro inteso come persona e come ambiente in termini di fisicità, concretezza e relazione piena, la sola condizione dalla quale ha origine lo sviluppo armonioso della personalità umana di cui noi pedagogisti siamo i privilegiati accompagnatori.
di Dott.ssa Debora Di Jorio
Pedagogista, Esperta nei processi di apprendimento e nella relazione educativa. Specialista in Pedagogia Clinica e Neuropedagogia. Dal 2006 Direttore Scientifico del Centro Psicopedagogico Formazione Studi e Ricerche OIDA. Presidente Accademia di Neuropedagogia OIDA APS. Vicepresidente nazionale Associazione Pedagogisti ed Educatori Italiani Associati.