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FARE L’INSEGNANTE:MISSIONE, PROFESSIONE O PASSIONE?

01-02-2025 23:35

Franco Larocca

PUBBLICAZIONI,

FARE L’INSEGNANTE:MISSIONE, PROFESSIONE O PASSIONE?

di Franco Larocca

Quando iniziai la mia vita di insegnante, ormai molto più di cinquant’anni fa, già si discuteva di questo quesito in termini di dilemma. L’avevo dimenticato. Ma una domenica mattina di qualche settimana fa in Tv me lo si ripresenta con la medesima enfasi e la medesima carica emotiva. Dovetti annotare che c’erano pochi degli astanti che propendevano per la missione, tantissimi per difendere la professione e quasi nessuno sottolineava la passione. Più di cinquant’anni praticamente annullati, anche per effetto delle ideologie divulgate soprattutto negli anni settanta.

Certamente è una professione. Anzi una delle più complesse e difficili, ma anche una delle più esigenti in termini di investimento personale. Purtroppo, è anche una delle più scadute nella considerazione sociale e politica. Perché? I motivi sono molteplici e complessi. Se dell’essere insegnanti si vede solo la professionalità, per quanto importante, la si pone allo stesso livello di tutte le altre professioni, senza coglierne la specificità profonda che la faceva vedere nel passato non tanto come una professione bensì come una missione, al pari di quella dei missionari appunto o dei medici (di una volta!). La sottolineatura della preparazione professionale in termini di conoscenze e tecniche, facendola derivare dal cumulo di saperi ha portato a decidere che tutti gli insegnanti siano laureati. Il che è bene, e quindi si accetta implicitamente il presupposto socratico per il quale la morale scaturirebbe dalla conoscenza, ma questo ha fatto sì che il sapere sopravanzi sull’essere. La conoscenza teorica, e magari fatta on line, sottolineata dalla troppo spesso astratta docenza universitaria ha fatto il resto. La missionarietà va invece progressivamente sparendo. Ma non solo negli insegnanti, bensì anche in altre professioni che hanno a che fare con l’umanità vivente. Ad esempio, i medici, sempre più specializzati in un piccolo settore, sono divenuti incapaci di vedere tutto l’uomo. E il medico di famiglia di una volta? Scomparso. Quelli delle ASSL sul territorio, son diventati degli erogatori di ricette. La missione del medico? Un’anticaglia! Così dicasi dell’insegnante. E certamente per quanto riguarda gli insegnanti non può bastare il riferimento alla serie di fiction “Provaci ancora prof”? Di certo lì, nella fiction, non si parla di missione. C’è però qualcos’altro che, aggiunta alla professione, dona a quella fiction un che di completo per offrire al mestiere più difficile di tutti la pienezza. Voglio dire: per essere insegnanti occorrono sia le conoscenze professionali, sia l’anima della missionarietà che avvicini l’adulto al minore in quanto chiamato o inviato a portare i giovani all’adultità, ma soprattutto occorre vi sia la passione. Occorrono tutte e tre insieme, all’unisono e ben intrecciate. Opera titanica cui non bastano i centodieci e lode della laurea e neppure l’accumulo di masters, se manca la capacità di sacrificio personale, se manca la passione per migliorare se stessi e gli altri, se manca la capacità empatica di avvicinarsi alle diverse età della vita non solo per distribuire saperi, ma per intrecciare i propri sentimenti con quelli dei giovani, in quanto gli insegnanti in quanto missionari sono mandati verso i giovani per chiamarli sì al sapere, ma soprattutto alla vita, alla gioia di vivere, a rendersi capaci di dono agli altri.

L’obiezione più ricorrente scaturisce da un falso fondamento di tutta la nostra cultura: si è addirittura intrufolato nel linguaggio fin dall’antichità. Il nostro Ministero di Governo che si occupa di questo aspetto è chiamato dell’Istruzione, ma molti documenti ministeriali parlano, dandogli lo stesso significato, di educazione. Insomma, la confusione tra insegnare, istruire ed educare è ricorrente sia nei documenti che nel nostro dire. Ma intuiscono che v’è una differenza coloro che obiettano e che affermano che la scuola deve insegnare ed istruire, mentre spetta alla famiglia educare. In verità si tratta di un equivoco creatosi lontano nei secoli passati. E se dovessimo essere precisi dovremmo richiamare i filosofi Socrate e Platone da una parte e Aristotele dall’altra. Per i primi due, l’occuparsi della crescita delle nuove generazioni occorreva educare, portar fuori, ciò che ogni nuovo nato aveva già in sé. “Educare”, significa, si è detto, “tirar fuori, cavare la verità che è dentro ciascuno di noi”, “ars maieutica”. Socrate che aveva la madre ostetrica, sembra abbia avuto questa ispirazione. Ma perché posso tirar fuori la verità? Perché c’è già, approfondisce Platone. E perché c’è già? Perché l’uomo è un’idea caduta dall’Iperuranio, vive diversamente da altri animali, c’è qualche cosa di divino nell’uomo. Ecco perché l’educazione è un “tirar fuori”. Aristotele però la pensava diversamente e sottolineò il fatto che tutti gli uomini alla nascita non avessero nulla da tirar fuori perché nella loro interiorità non v’era nulla (erano tabula rasa, ovvero lavagne intonse). E allora? E allora l’educazione non è un tirar fuori, ma è “istruzione”, “in-struo”, “in-segno”, “metto dei paletti, dei segni” dentro l’anima, dentro l’uomo, perché non c’è niente prima. Per occuparsi dei giovinetti occorreva appunto trasmettere delle nozioni su cui costruire poco alla volta il proprio sapere, le proprie conoscenze. Lasciamo da parte in questa sede quanto i due “De Magistro” di Agostino e di Tommaso approfondirono secoli dopo a favore il primo di Platone e il secondo di Aristotele. La equivalenza, e meglio, la confusione deriva da una difficoltà più profonda: la natura dell’uomo. Un’idea caduta dal cielo (iperuranio) o un animale come tutti gli altri con la possibilità di accumulare segni dentro di sé? Queste due modalità di concepire l’occuparsi dei nuovi nati sono compresenti, ma in grande contraddizione fra di loro, perché sono due forze che sembra tirino in due parti opposte. Parliamo di educazione come di un seme, e dentro al seme potenzialmente c’è tutto: nella ghianda c’è già la quercia. Dall’altra parte - Aristotele – si è ricorsi all’immagine della molle cera: occorre forgiare dall’esterno, perché il bambino è visto, appunto, come una molle cera. Mettete insieme queste due concezioni e poi ditemi se non entrate in difficoltà. Io non vedo oggettive né l’una né l’altra; l’occuparsi dei giovani non è né un “tirar fuori”, né un “metter dentro”, ma un’interazione, una transazione in cui avviene una continua riduzione di asimmetria tra minore ed adulto. Ed è per questo che occuparsi in ogni ambito (dalla famiglia alla scuola e a tutti gli altri enti sociali) dei giovani occorre si intreccino insieme sia la sostanza della missione che quella della professione e comunque senza che manchi la passione. Ciascun ente, comunque, in armonia sinfonica secondo stili e modalità proprie. Ma questo è un altro discorso.


Franco Larocca

 

Prof. Franco Larocca - Professore emerito di Pedagogia Speciale all’Università di Verona, già docente di Pedagogia sociale all’Università Cattolica di Milano, già Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Verona, è stato uno dei pochissimi Ordinari di Pedagogia Speciale presenti in Italia, Consulente di varie istituzioni di Educazione Speciale, è stato responsabile del gruppo studi e ricerche sull’handicap del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Verona

 

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