Introduzione
Il costrutto di Qualità di Vita (QdV) sta rivoluzionando il modo di concepire il progetto personaliz- zato per la persona adulta con Disturbo del Neurosviluppo. E’ in atto una significativa transizione, forse un vero e proprio cambiamento paradigmatico1 , dal cosiddetto progetto riabilitativo al pro- getto di vita. Anziché concentrarsi sui problemi, per concepire soluzioni tecniche, il movimento della QdV sta aiutando famiglie e professionisti a spostare il focus verso i desideri, le priorità e le aspirazioni della persona disabile, spingendo la comunità di pratiche a predisporre i sostegni ne- cessari al raggiungimento di stati significativi di pienezza esistenziale, nel rispetto dell’autodeter- minazione.
1. Paradigmi e progresso scientifico
Che cosa si intende per cambiamento paradigmatico? Qual è il livello di cambiamento che viene evocato quando a mutare non è semplicemente un metodo o una singola teoria, ma un’intero pa- radigma? Che cosa in effetti sta cambiando?
Per Thomas Kuhn (Kuhn, 1979), il termine paradigma indica un insieme coerente di principi che stanno alla base di conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo pe- riodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca. In altre parole, il paradigma è una struttura profonda, formata da credenze e as- sunti metafisici, molto prima che da modelli scientifici di spiegazione. Il paradigma si collega ad una specifica comunità scientifica, in quanto genera procedimenti metodologici, modalità di co- municazione e di dimostrazione delle teorie, a cui si ispira il lavoro di un settore e/o di un gruppo di studiosi in una data epoca. Pertanto, il paradigma si instaura e si rafforza sulla base di condi- zioni e fattori non scientifici, ma valoriali, sociali e psicologici, prendendo vita nella concretezza di un periodo storico, e nella visione del mondo condivisa all’interno di esso.
L’astronomia tolemaica o quella copernicana, la fisica aristotelica o quella newtoniana sono esempi di paradigmi: lo studio di tali paradigmi prepara lo studente a diventare membro della par- ticolare comunità scientifica con la quale più tardi dovrà collaborare. La comunità scientifica, che è il soggetto portatore, posto in rapporto biunivoco con il proprio paradigma di riferimento, è dunque costituita da coloro che condividono un insieme di valori scientifici ed etici, hanno in co- mune criteri di giudizio, problemi, modelli interpretativi, metodi e vie di soluzione per risolvere quei problemi e, cartina di tornasole, concordano, sulla necessità che i loro successori siano educati in base agli stessi contenuti e valori.
I paradigmi, naturalmente, non sono immutabili, anche se la loro erosione è più lenta e secolare rispetto al semplice avvicendarsi di singole teorie. Per spiegare i fattori che determinano il cam- biamento paradigmatico, segnando le fasi più significative dell’evoluzione scientifica, Thomas Kuhn descrive il passaggio tra due fasi, quella della scienza cosiddetta “normale” e quella della scienza straordinaria. La «scienza normale» è quel tipo di attività di pensiero che si sviluppa du- rante il periodo nel quale la comunità scientifica ammette determinate "teorie" come indiscutibili, accettando di studiare nuove prospettive o di risolvere i problemi alla luce di queste teorie.
Pertanto, entro i confini della scienza normale non si è disponibili a mettere sotto la lente i fonda- menti sui quali la stessa scienza, implicitamente, poggia, ma solamente questioni concrete, risol- vibili a partire dai presupposti taciti, nell’ambito di un normale progredire. Insomma, il paradigma risponde ad un modo di pensare e di agire universalmente riconosciuto, il quale per un certo pe- riodo di tempo fornisce un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca. “Scienza normale significa una ricerca stabile fondata su uno o più risulta- ti raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore” (Kuhn, 1979:29).
Evidentemente la "scienza normale" di Kuhn non rispetta i canoni di quella disponibilità alla "falsi- ficazione" che Popper considera essenziale per la scienza (Popper, 2010). Al contrario, essa non ricerca in modo alcuno la sostituzione delle teorie che costituiscono il "paradigma" nel quale lavora, ma si muove solo per costruire nuove applicazioni di tali teorie: in questo senso, la sua attività è "non critica”.
La "scienza normale" non è di per sé un fenomeno negativo, anzi: essa può esistere come esiste la routine in qualsiasi attività umana. La fiducia irriflessiva in un paradigma, di fatto, è la cornice entro la quale è possibile dispiegare la capacità umana di elaborare idee e affrontare problemi concreti, dando luogo ad una serie di scoperte, che tuttavia si muovono entro confini dati. In ef- fetti, il progresso scientifico per la maggior parte si spiega, secondo Kuhn tramite l'esistenza della scienza normale: il fatto che gli scienziati accettino un paradigma indiscusso permette loro di concentrarsi sistematicamente su aspetti specifici della propria comunità di pratiche
I "paradigmi" offrono agli uomini una visione del mondo (almeno per la piccola parte che questi studiano) nella quale hanno senso le teorie che essi propongono e utilizzano; di conseguenza, il compito della scienza normale si “riduce” allo studio dei problemi concreti che si presentano al- l'interno di questa concezione del mondo, affilando la propria capacità analitica: “La ricerca nor- male deve il proprio successo all'abilità degli scienziati nello scegliere regolarmente problemi che possono venire risolti con tecniche concettuali e strumentali strettamente connesse con quelle che già esistono” (ibi:124).
Nel tempo, tuttavia, il progredire stesso della scienza normale fuoriesce nell’imbattersi in problemi che essa non riuscirà a risolvere. La natura, la portata, la quantità e la gravità dei problemi , o co- munque delle questioni irrisolte, finiscono per provocare una crisi, ed è così che si comincia ad interrogarsi sulla validità del paradigma accettato pacificamente fino a quel momento. In queste circostanze può trovare spazio la "scienza straordinaria", ossia quell'attività scientifica volta alla ricerca di nuovi fondamenti di pensiero, capaci di risolvere la crisi. Una volta che i valori, le pro- spettive e i nuovi criteri ispirativi trovano consenso nella comunità, si verificano le cosiddette "ri- voluzioni scientifiche”, intese “come quegli episodi di sviluppo non cumulativi nei quali un vecchio paradigma viene rimpiazzato, completamente o in parte, da uno nuovo e incompatibile” (ibi:119). La «scienza straordinaria» si verifica dunque solamente in circostanze eccezionali, quando il pro- gresso della scienza normale arriva a un punto nel quale le anomalie sono tali e tante da rendere necessaria l’elaborazione di nuovi assunti, che superino le possibilità di questo paradigma. Qui nasce una fondamentale domanda: come si arriva ad accettare un nuovo paradigma? Su che base i ricercatori accettano una nuova visione come punto di partenza della loro riflessione?
Un nuovo paradigma non si accetta sulla base di argomenti specifici: infatti, esso non si muove sul terreno delle argomentazioni e delle conseguenze logiche, ma sul piano, più alto e più avvol- gente, di una nuova visione del mondo (o almeno di quel particolare “mondo” che è oggetto di studio). Kuhn parla in questo senso della "incommensurabilità" dei paradigmi: “la competizione tra paradigmi non è il tipo di battaglia che si possa risolvere tramite prove” (ibi:121), così che “co- loro che propongono dei paradigmi in alternativa ad altri, svolgono il loro lavoro in un mondo di- verso” (ibi:117). Per questo tipo di esperienza, differente e più profonda rispetto ad una semplice falsificazione di concetti e teorie, Kuhn usa il termine “conversione”: “il passaggio da un paradig- ma a un altro è un'esperienza di conversione che non si può forzare.” (ibi:55)
Certamente possono anche esserci ragioni specifiche che possano indurre ad accettare una nuo- va visione del mondo (ad esempio, la maggiore capacità di dipanare aporie o di risolvere proble- mi). Tuttavia, la progettazione prima, e l’adesione poi ad un nuovo paradigma non dipende in pri- mo luogo dalla percezione di errori passati, quanto e soprattutto dall’intuizione di prospettive futu- re, degne di essere perseguite. Insomma, “è necessaria una scelta tra diversi modi di praticare la scienza e, in questi casi, questa decisione si dovrà basare più sulle future aspettative che non sui successi passati (…). una decisione di questa portata si può prendere solamente se si ha fede» (ibi:203).
Per concludere, è chiaro che cambiare un paradigma non è un’operazione lineare e semplice, semplicemente per il fatto che coloro che sono chiamati ad elaborarne uno nuovo in realtà già da sempre vivono all’interno di una comunità scientifica, e dunque immersi, in modo irriflessivo e per così dire spontaneo, nel paradigma stesso che devono falsificare, generandone uno nuovo. Nel momento, tuttavia, nel quale una nuova intuizione apre un lampo su una nuova visione del mon- do, allora alcuni iniziano a percepire con più attenzione le anomalie del loro stesso modo di pen- sare, entrando a poco a poco in percezioni nuove, che dovranno in seguito trovare corpo in una nuova generazione di idee, teorie e prospettive.
2. Paradigma funzionale e paradigma esistenziale
A ben vedere, nel mondo della disabilità era già avvenuto un cambiamento paradigmatico, nel momento in cui la persona con disturbi del neurosviluppo ha cessato di essere considerata come un soggetto malato, da trattare secondo il rigido canone della scienza medica, lungo l’itinerario che si snoda dalla diagnosi alla cura, intesa come lotta contro l’anomalia corporea. Quando poi diventava chiara, seppure spesso non dichiarata, l’impossibilità della cura, allora prendeva piede un sistema pietoso di protezione, come una sorta di risarcimento dovuto alla tragedia della cosid- detta cronicità.
L’intuizione di un potenziale di crescita nelle persone disabili lasciò intravedere i problemi generati dal paradigma clinico: l’impossibilità di guarire, la diversità anche netta tra persone con la stessa diagnosi e il circuito vizioso che dall’assistenza conduce all’impotenza appresa (Seligman, 2005) causarono la rottura paradigmatica, conducendo la comunità scientifica dal paradigma clinico al- l’elaborazione di quello che potrebbe essere chiamato il paradigma riabilitativo, o funzionale.
2.1. Paradigma riabilitativo o funzionale
Il paradigma riabilitativo è nato nel periodo in cui i servizi stavano faticosamente superando il pa- radigma clinico, che considerava la persona disabile come persona malata, cronica, e dunque oggetto di meri trattamenti assistenziali e custodiali. La scoperta della riabilitazione avviene di fat- to intorno agli anni Settanta: la persona con disabilità viene considerata in grado di aumentare le proprie autonomie, o al limite di essere aiutata a conservarle, attraverso la predisposizione di pro- grammi e interventi di natura tecnica, come terapie, trattamenti e laboratori.
Il progetto riabilitativo è strumento con il quale l’operatore esamina i problemi della persona disa- bile, allo scopo di pianificare soluzioni di natura tecnica, avendo come obiettivo l’aumento delle autonomie, in ogni settore del funzionamento umano, dagli aspetti cognitivi alle capacità adattive, dalle attività di vita quotidiana ad abilità più complesse come ad esempio l’uso del denaro o la comunicazione. La pubblicazione del sistema ICF nel 2001 ha dato consistenza e metodo a que- sta impostazione, elaborando in modo scientifico il linguaggio del funzionamento e offrendo la possibilità di descrivere gli esiti in termini di miglioramento del deficit, entro una scala articolata in livelli.
E’ certamente innegabile, anzi, fondamentale che l’esito funzionale rappresenti il focus degli inter- venti nell’età evolutiva, quando ciò che importa è prima di tutto il potenziamento delle capacità del bambino con disturbo del neurosviluppo, in ogni ambito del suo funzionamento, anche a pre- scindere dall’autodeterminazione. Ma oggi, grazie alla progressione delle scienze mediche, la speranza di vita della persona con disabilità va ben oltre l’età evolutiva: così, già a partire dall’a- dolescenza, e sempre di più nel progredire verso la condizione adulta, si avverte l’insignificanza di interventi ciecamente centrati sui problemi, mentre nella persona si risveglia l’universo esistenziale dei desideri e dei valori.
Eppure famiglie e professionisti tendono a perpetuare l’impostazione riabilitativa, e nelle organiz- zazioni questo scenario perdura tuttora, mentre il paradigma esistenziale fatica ad affermarsi nella mentalità di operatori e famiglie, come anche nell’impostazione dei progetti individuali. Qual è il meccanismo in base al quale i professionisti sembrano ignorare le risorse, i desideri e le istanze proprie e profonde della persona, generando interventi centrati sul problema? Si può affermare che il mondo dei servizi ha traslato il modello clinico-funzionale, idoneo alla risoluzione di proble- mi tecnici (come la rottura di un femore o la cura di un tumore), al campo dei problemi esistenziali, come ad esempio la disabilità, la vecchiaia, la solitudine e la depressione.
Il comportamento problema di un disabile o la vulnerabilità di un adulto sofferente non sono “og- getti” circoscrivibili nella stretta precisione di protocolli terapeutici: per essi, pertanto, la logica problema-soluzione tende a fallire, quando non ad esasperare il problema stesso, sotto la lente della diagnosi e dell’intervento centrato-sul-problema. Nella apparente lucidità dell’azione riabili- tativa si dipana in realtà una dinamica che cristallizza il deficit, o nel sopravvalutarne l’importan- za, moltiplicando gli interventi, o semplicemente dimenticando che è nella persona stessa che risiede l’energia in grado di bilanciare il problema nell’alveo del progetto di vita.
I sintomi di questo paradigma, come anche (seppure in modo meno evidente) il suo punto di rot- tura, sono visibili a partire da come gli operatori (e le istituzioni a cui appartengono) mettono a punto il progetto di intervento: il rischio è che il progetto si traduca nel posizionare la persona dentro le pianificazioni professionali. In questo modo, il progetto personale si trasforma in un per- corso di fruizione di prestazioni professionali fissate a monte, e per così dire “pensate a partire dai professionisti”: martedì pomeriggio il laboratorio della narrazione del sé, il mercoledì mattina la sabbia-terapia, il giovedì le attività teatrali, il venerdì la fisioterapia di gruppo, e così via.
Insomma, nel paradigma funzionale, che potrebbe anche essere definito come paradigma pro- blema-soluzione, i professionisti hanno il compito di individuare i problemi della persona (attraver- so la cosiddetta valutazione multidimensionale), e di programmare gli interventi a partire dalle risorse in loro possesso. Una serie di strumenti clinici e di check-list misurano il deficit della perso- na, e sulla base di queste valutazioni si pianificano gli interventi: ad esempio, se la scala Tinetti ha un punteggio basso occorre una prestazione fisioterapica, oppure se il Mini-Mental-State è basso occorre un laboratorio cognitivo: tutto questo senza chiedersi se questi interventi hanno uno sce- nario esistenziale, e se e a cosa servano realmente.
A livello organizzativo si possono intravedere alcuni sintomi del fatto che una istituzione, qualun- que essa sia, è dentro questo paradigma:
- le logiche istituzionali: l’organizzazione tende a dare un’eccessiva importanza alle procedure; ad esempio, ciò che sembra preoccupare è la temperatura del carrello prevista dal manuale HACCP, o i presidi igienici come guanti e cuffiette, e non l’autodeterminazione e il gusto per il cibo; la pro- cedura sull’idratazione, e non la disponibilità di bevande fresche in un frigorifero accessibile a tut- ti. Idratazione, alimentazione, movimentazione sono, più in generale, alcuni dei vocaboli di un lin- guaggio sconcertante, simbolo efficace del paradigma. Questa sorta di gergo dialettale non è im- posto dalle norme, ma è stato elaborato dalla dalla comunità scientifica, ovvero dalle scuole pro- fessionali, che generano linguaggi di settore, accuratamente scelti per difendere il prestigio del proprio titolo;
- i pallini professionali: gli operatori agiscono in base ai propri studi e passioni professionali. Così, ad esempio, se un educatore ama lo sport tutti i disabili dovranno partecipare alle attività di psi- comotricità, se ad un altro piace la musica tutti i disabili avranno benefici dai laboratori di musico- terapia;
- il planning, o piano di lavoro. Nei centri diurni e nelle residenze si assiste spesso alla program- mazione di settimane rigide e senza tempo libero, che hanno come inevitabile effetto quello di mettere le persone con disabilità nella condizione di non scegliere, non imparando a gestire il tempo libero. Ogni attività ha una sua interna giustificazione, intesa come possibilità di perseguire l’uno o l’altro obiettivo, in termini di abilità funzionali.
La coerenza del paradigma funzionale è confermata dal fatto che questa rischiosa, forse iniqua impostazione è stata in ultimo cristallizzata dalle normative regionali sull’accreditamento: nelle ve- rifiche sui progetti individuali ciò che importa è la rispondenza tra l’obiettivo funzionale e il tipo di intervento stabilito, che deve essere descritto in termini di durata e giustificato da una professio- nalità adeguata a quel tipo di intervento. Nel diario, poi, deve essere puntualmente registrata l’at- tività, in un formalismo che trova così il suo pieno dispiegamento.
Infine, anche nella ricerca si intravede la dominanza culturale del paradigma. Pur non essendo in grado di dare puntuale riscontro numerico, si può affermare che la stragrande maggioranza degli articoli scientifici e delle pubblicazioni riguardano singole tecniche di intervento (come ad esempio l’analisi applicata al comportamento, oppure la comunicazione aumentata alternativa), insieme all’evidenza della loro efficacia, misurata all’insegna degli esiti funzionali. Non sono molte, invece, le pubblicazioni che rendono conto dei sostegni in grado di aumentare la pienezza esistenziale della persona disabile, in risposta ai suoi desideri, e misurando i risultati in termini di esiti perso- nali.
Per concludere, queste molteplici manifestazioni del paradigma manifestano anche il suo punto di crisi, nel momento in cui si intuisce che è in realtà possibile dare una vera centralità alla persona disabile, mediante il sostegno alla sua autodeterminazione, che, nella fase adulta, ha come scopo ultimo la pienezza esistenziale, e non già l’apprendimento di abilità funzionali. Nell’idea della ria- bilitazione, infatti, il rischio è che la centralità della persona sia uno slogan, una considerazione vuota. Per evitare questo, occorre avere non solo dei principi etici, ma anche una metodologia intelligente, complessa, veramente orientata ai valori e alle aspettative della persona.
2.2. Il paradigma personale, o esistenziale
L’intuizione di poter sostenere la persona con disabilità nella sua traiettoria di vita apre la prospet- tiva di un nuovo paradigma, che potrebbe essere definito paradigma esistenziale, o paradigma personale, oppure ancora paradigma desideri-sostegni.
E’ sul finire degli anni Ottanta che la riflessione sulla QdV generò una serie di modelli e concettua- lizzazioni, evitando il rischio che il movimento personalistico si riducesse ad una serie di enuncia- zioni di principio. La condivisione di studi ed esperienze all’interno della comunità scientifica e della comunità di pratiche evidenziò la significativa sovrapposizione di molti domini su cui insiste- vano i numerosi costrutti elaborati, a tal punto che il World Health Organization’s Quality of Life (WHOQOL) fu spinto a definire un modello condiviso per la misura della QdV. Così, nel 2002 vide le stampe il famigerato articolo di Schalock et alii (2002), nel quale è descritto il modello a otto domini che a tutt’oggi è considerato il più consistente.
Come sempre accade all’alba di un nuovo paradigma, lo scenario valoriale così dischiuso, dispie- gando una sorta di nuova visione del mondo della persona con disabilità, ha generato una messa di orientamenti e di scoperte, mettendo ancora di più sotto la lente l’insufficienza dell’approccio riabilitativo applicato alla condizione esistenziale della persona adulta e adulto anzian. Da allora in poi le esperienze di impostazione del progetto di vita sulla base dei domini di QdV, piuttosto che sulle aree di funzionamento, si sono moltiplicate anche in Italia, sino a giungere all’elaborazione di una Linea Guida sul Progetto di Vita (AIRIM, 2010) e di una specifica norma UNI sui servizi per l’abitare e per l’inclusione (Francescutti, 2016).
Il chiarimento per così dire definitivo sul nuovo scenario è reso possibile a partire dalla definizione fini stessi dei progetti di vita, ovvero da un’accurata distinzione delle varie possibili tipologie di esito; da questo punto di vista è significativa l’articolazione operata dalle già citate Linee Guida dell’Associazione Italiana per le Disabilità Intellettive e dello Sviluppo (2010), che discrimina i pos- sibili esiti in tre tipologie, clinici, funzionali e personali:
• Gli esiti clinici (clinical outcomes) hanno come focus dell’intervento i sintomi di malattie o sin- dromi, avendo come obiettivo la riduzione dei sintomi stessi, misurabile attraverso registrazio- ni di tipo sanitario, come ad esempio attraverso i diari solitamente gestiti all’interno delle car- telle cliniche;
• Gli esiti funzionali (functional outcomes) hanno come focus dell’intervento le abilità di vita quo- tidiana (anche dette “abilità adattive”), avendo come obiettivo generale l’autonomia della per- sona, misurabile attraverso l’utilizzo di scale del comportamento adattivo o scale funzionali;
• Gli esiti personali (personal outcomes) hanno come focus dell’intervento i sogni e le priorità della persona, avendo come obiettivo il senso di pienezza esistenziale (la Qualità di Vita), mi- surabile attraverso la verifica del raggiungimento degli obiettivi personali che l’individuo ha scelto e continuamente sceglie per il proprio tragitto di vita.
Focus Risultato Strumenti di misura Tipologia di indicatori
Clinici Salute Assenza di sintomi Cartella clinica Esami strumentali
Funzionali Autonomie Maggiore adattamento Scale di osservazione Domini e categorie di funzionamento
Personali Valori e priorità Pienezza esistenziale Interviste Domini di QdV
Tab. 1: tipologie di esito
La tabella 1, d’altronde, liberamente tratta e adattata da un studio del Council on Quality and Leadership (CQL, 1999:7), chiarisce ancora di più i presupposti metodologici del nuovo paradig- ma, ossia del nuovo modo di generare ricerca e soluzioni concrete per il sostegno alla vita della persona con disabilità. Mentre il focus si sposta dalle autonomie funzionali (anche dette capacità adattive) ai valori e alle priorità della persona, il progetto di vita, diversamente dal progetto riabili- tativo, è strumento con il quale l’operatore indaga i bisogni esistenziali della persona, allo scopo di predisporre i sostegni necessari al raggiungimento della più alta Qualità di vita (QdV) possibile. A fondamento della progettazione non ci sono più in primo luogo i risultati di check-list osservati- ve, che evidenziano i deficit funzionali, ma i resoconti di interviste strutturate, che cercano di por- tare alla luce le dimensioni più profonde della persona oggetto (soggetto?) di progettazione, ovve- ro le sue traiettorie valoriali e le esigenze della sua incancellabile (anche se a volte difficilmente “dicibile”) propensione alla felicità.
Per perseguire questo nuovo approccio metodologico, fondato sull’intervista, e giustificato dalla cornice concettuale del nuovo paradigma, si sono moltiplicati i modelli di indagine esistenziale. Solo a titolo esemplificativo, si citano le Personal Outcome Scales (Van Loon, 2008), il Personal Outcome Measure (CQL, 1997) e la BASIQ (Bertelli, 2011), mentre, a completamento di un pac- chetto di strumenti utili al nuovo tipo di assessment, si segnala anche l’ADIA, strumento diretto alla misura della capacità di autodeterminazione della persona con disabilità (Cottini, 2010).
Insomma, cambiando il paradigma, cambiano gli strumenti: se nella progettazione clinica lo stru- mento principale è la diagnosi, se nella progettazione funzionale lo strumento è la valutazione multidimensionale, nella progettazione di vita lo strumento chiave è l’intervista alla persona o, se essa non ha voce, il suo prossimo, il suo portatore di interesse. L’intervista rileva valori, aspettati- ve e desideri della persona nei cosiddetti “domini di qualità di vita”, ovvero ambiti esistenziali im- portanti per ogni uomo, come le relazioni, l’inclusione, l’autodeterminazione e lo sviluppo perso- nale.
Infine, cambia anche l’impostazione del progetto individuale. Nell’impostazione riabilitativa il pro- getto è articolato attorno alle aree professionali, o ai domini di funzionamento: area clinica, area motoria, area cognitiva, e così via. Compito di ogni operatore é annotare il proprio intervento nel- l’area corrispondente, secondo la logica problema-soluzione, e alla fine il progetto risulta dalla somma di interventi professionali, e non dalla persona.
Occorre invece pensare ad una scheda progetto articolata nei domini di qualità di vita, nella quale annotare gli obiettivi come risultante non solo della valutazione multidimensionale, ma anche e soprattutto dall’intervista. In questo scenario di metodo (oltre che valoriale) le equipe di lavoro, ogni volta che mettono a punto il progetto, saranno indotte a chiedersi: è possibile aumentare l’autodeterminazione della persona, la sua inclusione, il suo benessere emotivo? Con quale tipo di interventi, non necessariamente (e non in primo luogo) di tipo riabilitativo?
Solo in seguito scopriranno che, per perseguire maggiori livelli di QdV, occorre affrontare anche problemi di tipo funzionale, che dovranno essere presi in considerazione non in sè, ma in quanto sono di ostacolo nel perseguire gli obiettivi di vita. Ad esempio, un problema motorio può essere di ostacolo all’autodeterminazione. Pertanto, l’intervento del fisioterapista si manifesta nella sua essenza più pura e autentica, ovvero come strumento (non fine) di una progettazione esistenziale. In particolare nell’età adulta e adulto-anziana questa transizione non è solo opportuna, ma persi- no indispensabile: anche qualora abbia ancora senso programmare azioni riabilitative, esse devo- no essere sempre strumentali a mete più ampie, facenti parte dell’orizzonte valoriale della perso- na. I presunti miglioramenti del funzionamento, derivanti dalle soluzioni tecniche adottate, non hanno infatti alcun significato se non sono finalizzati al perseguimento di obiettivi di vita.
Conclusione
Ernst Heinrich Haeckel, biologo e naturalista, affermò, con una frase oramai celebre, che l’onto- genesi ricapitola la filogenesi (1895). Tralasciando di analizzarne il significato scientifico, quello filosofico sta a indicare che l’evoluzione della scienza ripercorre, per vie misteriose, l’evoluzione stessa dell’essere umano. La stessa cosa è avvenuta e sta avvenendo all’interno dei servizi; se nei primi anni di vita della persona con disabilità il focus principale deve essere la diagnosi preco- ce, nell’età evolutiva la riabilitazione, e nell’età adulta la Qualità di Vita, così la traiettoria dei para- digmi ha ripercorso le medesime tappe, centrandosi dapprima sulla diagnosi (paradigma clinico), poi sulla riabilitazione (paradigma funzionale) infine sulla QdV (paradigma personale). La filogenesi dei servizi ha concluso la sua traiettoria, giungendo alla maturità, ovvero all’attenzione, valoriale e metodologica, al costrutto di pienezza esistenziale.
Naturalmente c’è ancora molta strada da fare, sia nell’ambito della ricerca che nell’ambito, più delicato, dei servizi, dove per altro le stesse normative rappresentano un ostacolo di non poca importanza.
Nonostante questo, il cambiamento di paradigma va completandosi, anche dal punto di vista me- todologico, nel momento in cui i servizi assumono intenzionalmente la QdV come l’esito dei loro sistemi organizzativi, privilegiando i risultati di tipo personale rispetto ai tradizionali risultati di tipo clinico (remissione dei sintomi) o di tipo funzionale (riabilitazione di specifiche competenze).
La battaglia culturale ancora non è vinta, come testimoniano i sistemi di accreditamento delle re- gioni italiane, ancora molto distanti da questo orizzonte, ma si sono poste le premesse per un lin- guaggio comune, in grado di moltiplicare esperienze generative di diritti e possibilità per la perso- na con disturbi del neurosviluppo.
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