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L’EDUCATORE EVITA SEMPRE DI INSEGNARE

02-02-2025 11:11

Gian Luca Bellisario

PUBBLICAZIONI,

L’EDUCATORE EVITA SEMPRE DI INSEGNARE

di Gian Luca Bellisario

Riflettendo, in questi periodi difficili dove il Coronavirus Disease - 19 ci costringe a riflettere con particolare intensità su noi stessi e sulle mutevoli circostanze della nostra esistenza, mi domandavo se, nelle best practice psicopedagogiche, in generale, fosse giusto includere interventi che valorizzassero il rispetto delle regole, dei precetti e delle prescrizioni che ci vengono suggerite ovvero se, in queste circostanze, occorresse andare più a fondo fino a domandarsi il “senso” di ciò che stiamo vivendo per ricercare e porre in essere le migliori strategia educative possibili.
E’ chiaro, ormai, che l’educazione si realizza nella “molteplicità” (due o più) dei Soggetti coinvolti (reciprocità) poiché, come noto, nessun soggetto pensante può auto educarsi se non nel confronto o, meglio, nel rapporto, nella RE-LAZIONE con “l’altro”.
Ed è così che pensavo a Socrate che sosteneva come “l’educatore evita sempre di insegnare”.
Si, proprio così. IL Suo ruolo, difatti, opera solo nell’èlenchos (il processo che opera solo sulle incoerenze delle opinioni) sapendo, Egli stesso, di non sapere (Socrate) e, quindi, di non potere “istruire”. “γνῶθι σαυτόν, gnōthi sautón” – “nosce te ipsum” – “temet nosce” – conosci te stesso sosteneva Socrate. Chi può ambire a tanto? Come si può raggiungere questo obbiettivo? Certamente nel concetto di “sé stesso” c’è una inaudita profondità di ricerca che non può essere delegata allo Stato educatore e a nessun altro precettore se non a certe condizioni.
L’educatore, infatti, non ha bisogno di toccare le potenzialità conoscitive degli individui per farle sviluppare attraverso l’istruzione che, al contrario, inquinerebbe, con precetti propri dell’educatore, la purezza e la genuinità dell’apprendimento.
Anche Nozick abbraccia l’idea secondo la quale, proprio su questi presupposti, la scuola (cioè lo Stato) non possa essere educatore e che “non possa stabilire le Sue fondamenta ma solo trovarle sulla base delle esigenze educative dei Suoi Cittadini.” Si badi bene, non è un concetto che invita all’anarchia, né al sofismo epistemologico. E’ un processo, quello educativo, i cui criteri si stabiliscono ex ante ma la realizzazione dell’azione educativa ex post.

L’educare, il curare (prendersi cura) presuppone la libertà rispetto alla quale lo Stato può solo svolgere il ruolo di garante ma mai di educatore.
Certo che si può educare i Cittadini alla libertà, in modo indiretto, ma lo Stato non la produce: la garantisce! Non la insegna: la valorizza e la promuove (come scrive Franco Cambi).
Lo stato “educa” nel senso che favorisce, attraverso norme “esteriori” ed “esterne”, che garantiscono all’uomo la propria libertà di crescere e svilupparsi intorno alla propria natura potenziale ed individuale (cioè soggettiva) che, nel tempo, diventa identità reale nel percorso di ciascuno (quindi unico). Ed ecco che, quindi, il ruolo educativo SPETTA ALLA VITA e non allo Stato. Uno stato inteso come l’insieme delle “unicità” e, da qui, discende l’immensa ricchezza di cui godiamo a livello umano e culturale. Siamo tutti unici e diversi. Tutti possiamo diventare un po’ “l’altro” e “l’altro” può diventare un po’ noi senza perdere, entrambi, la propria unicità ma solo ampliando la propria identità.
Ecco che, mi viene in mente, l’altra parte dello Stato, l’altra faccio non istituzionale, è quella che si avvicina al concetto di Nazione, intesa come realtà sociologica dello Stato. Una unica famiglia di persone che ci orienta verso un mondo unico ma non ancora unito.
Per questa ragione intendo, dal mio modesto e personale punto di vista, istruttivo ma non educativo il rispetto delle regole imposte dallo Stato (che si badi bene devono sempre essere rispettate per il bene comune). Così come non ritengo possa appartenere alla pedagogia, soprattutto a quella dell’emergenza, l’obbiettivo di “insegnare” ai nostri giovani (ed a noi stessi) il rispetto delle norme intese come “valore educativo”. Così come la valorizzazione dell’attesa che tutto passi, intesa come capacità di gestire sé stessi. Sono certamente, questi, elementi indispensabili all’interno di una crescita della coscienza collettiva e della personalità ma, essi, sono solo obbiettivi a breve termine che non sfruttano appieno, come occasione, questo momento importante nel quale tutti siamo chiusi in casa, forse perdendoci, in alcuni casi, la vera occasione educativa che è quella di essere “aperti” verso l’altro (la reciprocità educativa) . Chiusi in casa? NO, aperti in casa.
Ecco che la riscoperta dell’altro trascende le sole norme di legge e ci pone nelle condizioni di stabilire un’autentica “relazione” educativa e reciproca. Io mi educo attraverso te e tu attraverso me. Non basta rispettare le regole del DPCM o di qualsiasi altra norma legale, né basta imparare a divenire “pazienti” e sviluppare la capacità di attesa. Questo sono istruzioni (giuste) impartite ma non valori necessariamente assunti da ciascuno nella propria coscienza individuale. Cioè, le norme, non generano cambiamento interiore e neanche crescita. Sono valori e regole forse rispettate ma non  sempre  fatte  proprie.  Solo  attraverso  una  concreta  azione  che  passi  dall’istruzione

all’educazione (cambiamento interiore) può assicurare il raggiungimento di questo ambìto obbiettivo.
Ecco, certamente questa non è una riflessione esaustiva, né adeguatamente circostanziata o supportata da ogni e qualunque riferimento scientifico (ce ne saranno di opposti e contrari) ma mi sembrava utile condividere con Voi queste mie riflessioni (personali) invitandovi ad essere pedagogisti e psicopedagogisti non solo nell’emergenza ma DELL’EMERGENZA, mantenendo quella identità specifica che ci caratterizza con la missione di cambiare il comportamento attraverso l’’apprendimento e, ciò, verso persone di ogni età.
Non abbiamo bisogno di incontrare necessariamente persone malate o disturbate per realizzare la nostra azione educativa: tutti si possono educare al cambiamento attraverso la relazione e, state ben certi, non sarà un farmaco e renderci migliori, né immuni verso le nostre intolleranze sociali (e purtroppo anch’esse reciproche e pervasive).
In questa fase (in particolare) SIAMO ed impariamo ad essere piuttosto che ad insegnare ripetendo precetti ovvi e scontati come se fossero occasione di alta pedagogia. L’alta pedagogia è quella che pone l’altro come obiettivo finale e non come strumento intermedio (non ci rende educatori l’aver insegnato ma l’aver assicurato a ciascuno di poter cambiare in meglio).
Non si diventa educatori insegnando. Si diventa educatori Educando e, per farlo, occorre una dimensione relazionale (quindi collettiva) di confronto reciproco.
Il Mondo è destinato a diventare UNICO ED UNITO. Un mondo UNITO si. Un mondo dove l’educazione ci liberi dalle catene interiori imposte dai pensieri forti o dai pensieri unici. Un modo che diventa unito propri a causa del bisogno comune e legato alla Cittadinanza terrestre, un mondo nel quale stabilire relazioni educative e, quindi, di apertura ad ogni cambiamento, ad ogni apprendimento e ad ogni evoluzione possibile. Se non lavorassimo per questo saremmo professionisti senza prospettive. Ma noi siamo prospettive e, in questo, possiamo diventare professionisti autentici.
Ex-ducere e non in-ducere.
Buon lavoro a tutti e grazie per il tempo che mi avere dedicato


Il Presidente Nazionale A.N.I.PED.
Associazione Nazionale Italiana dei Pedagogisti
Dott. Gian Luca Bellisario
 

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