Una premessa pedagogica
Lavorare in contesti di marginalità e devianza è da sempre una sfida per gli operatori dell’educativo, sfida che implica un totale coinvolgimento personale e professionale ed esige, in primis, una particolare attenzione per il proprio vissuto emotivo che, in situazioni di grande disagio, è messo duramente alla prova. Per questo ed altri motivi, non ci si improvvisa esperti dell’educativo, ma lo si diventa, attraverso un atteggiamento di disponibilità nei confronti della conoscenza e di curiosità verso l’essere umano.
Avvicinarsi al disagio con professionalità pedagogico-educativa significa, quindi, innanzitutto, volgere lo sguardo sul sistema-persona, accogliendone la complessità senza incorrere in semplificazioni o incasellamenti, per il timore di non avere il pieno controllo sull’oggetto d’indagine. Il nostro agire pedagogico, proprio perché intenzionale, segue dei tracciati preparati, che facilitano l’utilizzo di strumenti e di posture, da parte del soggetto che ci chiede aiuto, che lo sostengono nel suo percorso di cambiamento. È quindi sempre il singolo individuo, l’artefice della propria evoluzione educativa: è bene ricordare che il pedagogista accompagna, ma non si sostituisce alla persona nel percorso di formazione.
Ho cercato più volte di trovare, per il termine “clinico", una definizione, un motto, che andasse oltre l'immagine di qualcuno che si accosta ai piedi del letto di chi si mostra bisognoso di cura [clinico: dal greco Klinikòs, "presso il letto"].
Il professor Franco Larocca1, durante una lezione sulla logica della mente e sull'importanza della creatività come processo mentale generatore di cambiamento, presso il Centro psicopedagogico Kròmata di Brescia, ha affermato quanto segue: “Il clinico dev'essere sempre dialogico”.
Credo sia un'immagine interessante.
L'atteggiamento clinico non più portatore di un gesto medicalizzante, che lascia intendere un dare a senso unico, bensì un dare-ricevere nella relazione d'aiuto.
Affinché il discorso generi una nuova proposizione (un nuovo sguardo, un nuovo modo di agire, un nuovo paradigma) deve compiersi sempre tra almeno due sistemi di pensiero. Dunque, un pedagogista clinico è colui che sta in situazione con la consapevolezza che, seppur la richiesta di aiuto arrivi da colui che gli siede accanto, il cambiamento si co-costruisce all'interno del rapporto dialogico.
Ecco perché serve, io credo, un pedagogista clinico tra le mura di una prigione: come stimolo e come guida professionale per tessere trame dialogiche trasformatrici all'interno di un ambiente tanto complesso e inospitale.
Educere sub lege
Il carcere come lo intendiamo noi oggi, ad impronta correzionalista2, nasce in Italia poco più di 150 anni fa: la persona internata veniva considerata parte integrante della società stessa, nella quale si sarebbe dovuta reinserire attraverso tre strumenti rieducativi: il lavoro, l’istruzione e la religione.
È il 1903 quando Durkheim scrive, in Pedagogia e Sociologia, che la società si serve dell’educazione per “rinnovare continuamente le condizioni della propria esistenza” e, al contempo, generare socializzazione, adeguando l’individuo ai modelli comportamentali concepiti dalla sua società di appartenenza.
Tuttavia, nonostante l’intenzione di rieducare la persona reclusa, fornendole un’attività lavorativa, un supporto spirituale e scolastico per la sua formazione interiore e intellettuale, fino agli anni Settanta del Novecento coloro che soggiornano in istituti penitenziari sono, nella maggior parte dei casi, dimenticati dalla società stessa. Solo quando cominciano ad entrare in carcere giovani militanti politici rivoluzionari che hanno, per lo più, una buona base culturale ed una conoscenza approfondita dei propri diritti civili, il carcere finisce sotto i riflettori del mezzo mediatico diventando, a tutti gli effetti, una questione pubblica.
Il 26 luglio del 1975 viene emanata la legge n.354 sull’Ordinamento Penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Ad accompagnarla, venticinque anni dopo, con D.P.R
30 giugno 2000 n.230, il Regolamento recante norme sull’Ordinamento Penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Ordinamento Penitenziario e Regolamento sono i due documenti legislativi cardine della vita penitenziaria. Una pedagogista che si inoltri nei meandri delle questioni penitenziarie, deve farlo tenendo sempre presente che si sta avvicinando ad un micromondo con proprie regole, proprie leggi, proprie gerarchie e una propria struttura sociale che, inevitabilmente, influenza ed è influenzata da un mondo più ampio che la contiene e che è quello della società a cui appartiene. Il filologo tedesco Werner Jaeger, in Paideia, afferma quanto segue: “L’edificio d’ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte e non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta della viva coscienza normativa d’una comunità umana.”
Le figure educative in carcere
La legge 354/75 prevede che il sistema carcere si organizzi intorno a due termini, ad impronta clinico- educativa: il trattamento e la rieducazione. L’idea è che il detenuto utilizzi il periodo di permanenza in carcere per intraprendere un percorso di revisione critica del proprio reato e di riabilitazione psicologica, educativa e sociale. A sostegno della persona detenuta vi sono tre funzionari pubblici facenti parte dell’équipe di osservazione e di trattamento, ovvero l’educatore (ora rinominato funzionario giuridico-pedagogico), l’agente penitenziario e l’assistente sociale.
Da diversi anni ormai il carcere si serve in modo continuativo anche di professionisti esterni quali psicologi, psichiatri e criminologi, che contribuiscono a produrre documentazione utile alla stesura della relazione di sintesi, necessaria per l’avvio del progetto educativo del singolo detenuto3. L’agente penitenziario è la figura, tra quelle sopra citate, che trascorre la maggior parte del tempo con i detenuti, per questo motivo negli anni Novanta si è assegnato, al poliziotto, anche un compito educativo: quello di osservare i comportamenti dei detenuti e riportare le proprie osservazioni all’equipe di osservazione e trattamento. In carcere la carenza di personale educativo è significativa: basti pensare che vi è, in media, un educatore ogni 100 detenuti. È interessante notare la sproporzione tra il numero di educatori e il numero di agenti penitenziari: nella casa di reclusione di Bollate, tra le più recenti e all’avanguardia, su 1181 detenuti si contano 16 educatori e 450 agenti penitenziari.
Ciò sta ad indicare come il sistema penitenziario italiano si regga ancora su un impianto di controllo disciplinare4 lasciando in secondo piano l’intento rieducativo esplicitato negli articoli di legge dell’Ordinamento Penitenziario del 1975. La carenza di personale, che si riscontra comunque anche tra il corpo di polizia penitenziaria, che tra i vari compiti ha quello della traduzione del detenuto fuori dalle mura carcerarie, riduce la possibilità di risocializzazione del detenuto stesso, le cui occasioni di contatto con il territorio, anche dopo il raggiungimento dei termini di legge per l’accesso ai benefici, sono già di per sé assai limitate.
L’azione pedagogica dietro le sbarre
Avere chiare le peculiarità che caratterizzano le professioni di educatore e pedagogista, permette di creare un’équipe di professionisti dell'educativo funzionale ed efficiente.
Nel carcere italiano, all’oggi, la figura del pedagogista è per lo più assente. La sua assenza è percepita, più o meno consapevolmente, come una grossa mancanza sia da parte dei detenuti sia da parte degli operatori interni alla struttura.
Gli educatori, infatti, non hanno chi li coordini, non hanno un punto di riferimento per gli importanti momenti di supervisione e di riflessione sulle attività educative che in carcere vengono proposte.
Il pedagogista è un professionista dell’educativo che, a differenza dell’educatore, è formato per funzioni di progettazione, organizzazione, coordinamento, gestione, monitoraggio, consulenza e supervisione5.
In ogni contesto formativo e ancor più in un ambiente complesso e gerarchizzato come il carcere, la figura dell’educatore e quella del pedagogista è bene che coesistano.
Non c’è programma senza progetto
Per programmare un’attività in carcere è necessario stendere un progetto che sia ben strutturato e condiviso. La progettazione può essere pensata dal pedagogista che, prendendo contatti con il territorio, crei una rete di collaborazioni che presenterà all’équipe educativa. Una volta definiti, in sede di équipe, obiettivi e modalità operative, si può passare alla stesura del programma o del piano delle attività. Mentre il pedagogista si occupa di tessere relazioni con l’esterno e di coordinare il proprio gruppo di lavoro, l’educatore ha il compito di attuare quanto è stato condiviso, nel concreto, con gli utenti stessi.
Non c’è accompagnamento senza supervisione
L’educatore in carcere effettua colloqui individuali con le persone detenute. Non ha, però, all’oggi, una figura che gli garantisca dei momenti di supervisione, utili per confrontarsi sui problemi che possono emergere, sulle proprie modalità operative o, ancora, sul proprio vissuto emotivo. L’educatore è lasciato a sé stesso con il rischio, senza un confronto personale con un supervisore, di incorrere in “errori valutativi”6 che possono compromettere la sua relazione con il detenuto e, di conseguenza, minarne la fiducia o addirittura portare all’abbandono del percorso educativo intrapreso.
5 È stato presentato, allo scopo, un “Documento di base sul Profilo di Educatore e Pedagogista in riferimento alla legge 4/2013” redatto a cura dei prof. Paolo Orefice e Silvana Calaprice, il quale delinea ambiti, funzioni e attività di entrambe le figure, che la struttura in cui operano deve avere ben chiari affinché si possa ricavare il meglio dalla professionalità dei singoli operatori. Per approfondimento: Bellisario, Gianluca e Sidoti, Enza, Professione Pedagogista, Fondamenti scientifici e normativi, Piccin, 2014
6 Tra gli errori valutativi più comuni, parliamo di “effetto alone”, ossia un atteggiamento cognitivo per cui si tendono ad associare ad una persona caratteristiche positive o negative come conseguenza di un tratto che di quella persona notiamo essere positivo o negativo; di “effetto Pigmalione”, per cui si interiorizza un giudizio o una aspettativa altrui e la si riproduce e ancora di “equazione personale”, ossia la tendenza a valutare gli altri come valutiamo noi stessi, quindi positivamente se l'altro rispecchia le nostre caratteristiche o negativamente, se non le rispecchia.
Non c’è gestione dei servizi di rete senza coordinamento e monitoraggio
L’educatore si rapporta direttamente con le altre figure educative coinvolte. Nel caso del carcere, queste figure sono per lo più volontari che fanno parte di associazioni o cooperative.
Spesso accade, tuttavia, che i volontari si alternino e gli educatori debbano interfacciarsi con operatori diversi, oppure, accade che un progetto avviato da alcuni volontari non venga co-costruito con gli altri operatori, o ancora, che si presentino progetti preconfezionati da adattare ad un contesto e a delle persone detenute dei quali non si ha conoscenza pregressa perché non si è progettato, preliminarmente, un momento di osservazione.
Il pedagogista, in questo senso, diventa un punto di riferimento a cui rivolgersi per discutere l’idea da proporre, per conoscere l’ambiente all’interno del quale la si desidera attuare, per fissare incontri conoscitivi, per creare l’eventuale gruppo di lavoro.
All’oggi questo compito è demandato all’educatore, che, per mancanza di tempo o talvolta di esperienza nel coordinamento e nel monitoraggio, si ritrova a dover gestire una quantità di impegni, attività e incombenze tali da compromettere così, spesso sin dai primi passi, la buona riuscita dell'intervento educativo in carcere.
Carla Felotti
Dott.ssa Carla Felotti - Insegnante, Specialista in Pedagogia Clinica e in Pedagogia Giuridica
Bibliografia
• Bellisario, Gianluca e Sidoti, Enza, Professione Pedagogista, Fondamenti scientifici e normativi, Piccin, 2014
• Castellano L., Stasio D., Diritti e Castighi, storie di umanità cancellata in carcere, Il Saggiatore, 2009
• Crispiani P., Pedagogia clinica, la pedagogia sul campo tra scienza e professione, ed. Junior, 2001
• De Vito C., Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia dal 1943 al 2007, Laterza, 2009
• Eusebi L. (a cura di), Una giustizia diversa. Il modello riparativo e la questione penale, Vita e pensiero, 2015
• Foucault M., Sorvegliare e Punire. Nascita della prigione, Einaudi, 1976
• Gonnella P., Carceri. I confini della dignità, ed. Jaca Book, 2014
• Larocca F., Oltre la creatività: l’educazione, La scuola, 1983
• Ricciardi S., Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza, Derive Approdi, 2015
• Vianello F., Il carcere. Sociologia del penitenziario, Carocci, 2012