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IL FETICCIO DEI VOTI

01-02-2025 23:16

Prof. Mario Maviglia

PUBBLICAZIONI,

IL FETICCIO DEI VOTI

di Mario Maviglia e Giovanni Manzi

Recentemente Massimo Recalcati in un intervento su Repubblica del 13/06/2019 (“Dico no alla legge dei voti”), ha denunciato quel “feticismo della cifra” che ha massicciamente invaso la nostra scuola. “Questo trionfo idolatrico del numero mostra come la selezione rischi di precedere la formazione anziché esserne una sua logica conseguenza”. Secondo Recalcati, il ricorso al voto- numero “è una scorciatoia che allontana totalmente la scuola dal suo compito civile e culturale più altro: accendere il fuoco del desiderio di sapere come centro di ogni possibile processo di formazione”.

Dal canto suo Maria Neri, in un articolo apparso sul Resto del Carlino del 23/06/2019, dà conto di un’esperienza di scuola senza voto sperimentata in un Liceo delle Scienze Umane di Cesena (“Cesena, scuola senza voti. L’esperienza del Monti in un libro”). Il libro in questione è “La classe senza voto”, di Sonia Bacchi e Simone Romagnoli, edito da Loescher. Nel testo si racconta di questo progetto nato dalla collaborazione tra il Liceo Monti e l’Università di Bologna che ha coinvolto una classe prima nell’anno scolastico 2016-2017; tutti i docenti della classe hanno sostituito il voto tradizionale, in decimi, con una valutazione di tipo alternativo. I voti sono stati attribuiti solo alla fine dei due quadrimestri, in ossequio alle norme vigenti. Come afferma Bacchi, “il voto rappresenta un ostacolo alla percezione di benessere: produce negli studenti un senso di minaccia che si traduce in ansia da prestazione, paura di fallire, tensione con genitori e docenti, tendenza a identificarsi con un numero. Il voto finisce per distogliere energie dal compito che il ragazzo è chiamato a svolgere ossia imparare. Così è nata la decisione di sperimentare una scuola del benessere, utilizzando un sistema di valutazione alternativo”.

Alla domanda se sia possibile una scuola senza voto in Italia, la stessa Bacchi risponde che “non solo è possibile, ma è auspicabile. A un’educazione che fa di individualismo e competizione la principale spinta motivazionale, a conferma del modello sociale corrente, il progetto ha contrapposto la proposta di una pedagogia e di una scuola basate sulla gratuità, sul valore centrale della persona, sul piacere di imparare e di insegnare.”

Queste osservazioni non sono molto dissimili da quelle espresse da Recalcati quando si chiede: “Non si calcola l’effetto di inibizione, il senso di umiliazione e, soprattutto, l’allontanamento dalla passione autentica dello studio che questa idea ‘metrica’ della valutazione può provocare? A cosa serve la scuola? A distribuire nozioni, informazioni, a trasmettere saperi mnemonici, nati già morti, o ad accendere il desiderio di sapere?”.

Considerazioni simili avevamo espresso anche noi in un intervento su La Vita Scolastica on line del 10/04/2019 in cui sottolineavamo che “i voti stanno distruggendo la relazione educativa e stanno snaturando i rapporti con i genitori degli alunni. Tutto sembra sacrificato in nome della verifica e della prestazione. Non si va a scuola per il gusto di imparare (ammesso che ci sia mai stato…), ma per prendere un bel voto. La didattica si sta trasformando in una sequenza di prove di verifica (anche nella scuola primaria), con tanto di voto, media, ecc. Che i bambini imparino effettivamente sembra non interessare più nessuno, troppo presi come siamo a “misurare” costantemente la prestazione. I bambini diventano essi stessi voti, ossia soggetti pesati, misurati, classificati”.

E’ ancora troppo presto per dire se si sta creando un movimento di opinione che intende discutere criticamente il ruolo del voto all’interno del processo di valutazione, ma certo è che sempre più spesso la centralità del voto e il peso che ha assunto nella pratica didattica, purtroppo anche all’interno del primo ciclo di istruzione, determinano un senso di faticosità ben visibile nella classe magistrale, oltre che terreno di scontro/contenzioso con le famiglie e con gli stessi alunni.

Eppure, un’attenta lettura della normativa non giustifica quella “idolatria del numero” che si è diffusa in molte scuole. Per quanto possa sembrare strano, le Indicazioni Nazionali del 2012 per il primo ciclo di istruzione non nominano mai la parola “voto”; parlano esclusivamente di “valutazione” correlandola continuamente al suo carattere “formativo”, ossia alla necessità di adattare la proposta didattica alle caratteristiche degli allievi in un ciclo ricorsivo in cui la progettazione si nutre dei dati valutativi per meglio rispondere alle esigenze degli allievi. Siamo quindi molto lontani da una idea anche solo vagamente selettiva o classificatoria di valutazione.

E infatti nella sezione dedicata alla scuola dell’infanzia, le Indicazioni Nazionali sottolineano che “l’attività di valutazione nella scuola dell’infanzia risponde ad una funzione di carattere formativo, che riconosce, accompagna, descrive e documenta i processi di crescita, evita di classificare e giudicare le prestazioni dei bambini, perché è orientata a esplorare e incoraggiare lo sviluppo di tutte le loro potenzialità”.

Per la scuola primaria e secondaria di primo grado si fanno considerazioni molto simili: “la valutazione precede, accompagna e segue i percorsi curricolari. Attiva le azioni da intraprendere, regola quelle avviate, promuove il bilancio critico su quelle condotte a termine. Assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo”.

Lo stesso D.Lgs 13/04/2017 n. 62 (“Norme in materia di valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo di istruzione ed esami di Stato”) esordisce (art. 1) affermando che “la valutazione ha per oggetto il processo formativo e i risultati di apprendimento delle alunne e degli alunni, delle studentesse e degli studenti delle istituzioni scolastiche del sistema nazionale di istruzione e formazione, ha finalità formativa ed educativa e concorre al miglioramento degli apprendimenti e al successo formativo degli stessi, documenta lo sviluppo dell'identità personale e promuove la autovalutazione di ciascuno in relazione alle acquisizioni di conoscenze, abilità e competenze”.

Il D.Lgs 62 adotta il termine “voto”, espresso in decimi, esclusivamente in relazione alle valutazioni quadrimestrali, all’ammissione alla classe successiva e all’esame di Stato. Non si fa menzione al voto in riferimento alle prove di verifica che vengono predisposte nel corso dell’anno scolastico. C’è da chiedersi come mai il voto abbia assunto quella pervasività nella pratica scolastica che tutti conosciamo, ben al di là di quanto previsto dalla stessa normativa e dai documenti programmatici. Sicuramente un ruolo di primo piano gioca la tradizione (“si è sempre fatto così”): operare secondo binari tracciati e consolidati da tempo dà un senso di sicurezza e di padronanza dei meccanismi connessi alla valutazione. Non va poi trascurato che assegnare voti è un’operazione in fondo più semplice rispetto ad altre forme valutative, come ad esempio quelle descrittive. Il voto, nella sua sinteticità, rappresenta una sorta di comoda condensazione di tanti aspetti diversi che necessariamente sono compresenti nell’oggetto da valutare. L’approccio descrittivo disvela questi diversi aspetti, il voto li condensa e sintetizza in una cifra.

C’è poi un altro aspetto che non può essere ignorato, anche se è pregno di elementi paradossali, oltre che di errori sul piano tecnico, e riguarda il valore che si attribuisce ai voti numerici all’interno di una scala (ordinale o cardinale). Si può convenire che la votazione numerica decimale da 1 a 10 in uso nel nostro sistema scolastico rappresenta una scala ordinale in quanto colloca i valori in un range definito. Il numero (voto) non è considerato nella sua “quantità”, ma per la posizione che occupa all’interno della scala. In sostanza noi potremmo sostituire i voti con lettere (A-B-C-D ecc.), come avviene in alcuni sistemi scolastici stranieri, ed ottenere lo stesso risultato; oppure potremmo sostituirli con aggettivi (eccellente-ottimo-discreto-sufficiente ecc.) e anche in questo caso il risultato sarebbe lo stesso. Quando però si usano i voti numerici i docenti tendono a dare un valore cardinale agli stessi compiendo operazioni che altrimenti sarebbero impossibili (a nessuno verrebbe in mente di fare la media tra A-B-C…, oppure tra eccellente-ottimo-discreto…).

Ma lo stesso uso della media aritmetica per la definizione del voto non è esente da errori concettuali e tecnici. Innanzi tutto le prove di verifica (a cui vengono attribuiti singoli voti) presentano stimoli e difficoltà molto diversi. Un 6 preso in una prova di livello medio di difficoltà non ha lo stesso valore del 6 preso in una prova di livello alto. Eppure, questi due 6 vengono trattati come se fossero equivalenti. Questa incongruenza viene specificata molto bene da Mario Castoldi in Valutare a scuola (Carocci, 2012): “E’ come se calcolassimo la nostra media di reddito sommando insieme il valore di A in euro, quello di B in cruzeiros brasiliani, quello di C come valore mensile, quello di D come valore annuale ecc.”. Per non parlare del fatto che vengono trattati in modo equivalente i giudizi espressi in Matematica con quello in Educazione fisica o quello sul comportamento dell’allievo.

Un altro aspetto interessante è che, per ampliare la possibilità di scelta, spesso i docenti operano una sorta di distorsione dei voti numerici utilizzando espressioni come 6+, 7-, 8½ ecc. (Per un approfondimento di questi aspetti si rimanda al testo di Davide Parmigiani, L’aula scolastica 2. Come imparano gli insegnanti, Franco Angeli 2018). Ovviamente queste specificazioni diventano ulteriori elementi di confronto tra gli allievi contribuendo ancor più a sacralizzare il ruolo del voto. Il risultato di questo modo di intendere la valutazione è che i vari protagonisti (alunni, docenti, genitori) identificano la valutazione con un numero e lo stesso allievo diventa una cifra nel processo di apprendimento. Al giorno d’oggi è più frequente sentire i genitori chiedere ai figli “Cosa hai preso oggi?”, piuttosto che “Cosa ti è piaciuto fare oggi a scuola?”. In sostanza, per citare ancora Recalcati, si crea un legame forte tra valutazione e quantificazione e tutto viene finalizzato ad ottenere un voto alto. L’appuntamento con le prove di verifica diventa, in questo contesto, un rito caratterizzato da un altro livello di stress in quanto le attese prestazionali appaiono pressanti. Poco importa che dopo qualche settimana le conoscenze esibite nelle prove di verifica vengano dimenticate: ciò che conta non è la loro stabilizzazione, ma il superare la prova in sé. Ciò che dovrebbe essere considerato un mezzo (monitorare i processi di apprendimento), diventa un fine (ottenere un bel voto).

Si può uscire da questo circolo vizioso? L’esperienza del Liceo di Cesena dimostra che se ne può uscire, anche se con grandi difficoltà e attraverso un lavoro di forte sensibilizzazione sia nei confronti delle famiglie che degli stessi alunni, abituati a confrontarsi non con le competenze da acquisire, ma con i voti da conseguire. Come notano i docenti di Cesena, studiando per il piacere di imparare, e non perché costretti o per essere ripagati da un bel voto, ed evitando il confronto con i compagni, “cambia l’approccio degli alunni con i saperi scolastici e con la stessa esperienza scolastica, nel senso che l’attenzione si sposta sull’apprendimento in sé e non sul voto, sul piacere di apprendere più che sull’ansia da prestazione.”

Mario Maviglia

 

 

Prof. Mario Maviglia - Pedagogista, già Dirigente Ufficio VII - USR Lombardia e Ispettore MIUR, Docente di Ricerca Educativa e Valutazione nell’Insegnamento (AFS) nel corso di Laurea in Attività Formative dell’Università Cattolica di Brescia

 

Giovanni Manzi

Dott. Giovanni Manzi - Pedagogista, Specialista in Pedagogia Clinica e in Pedagogia Giuridica
 

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